Promosso dall’associazione “Brecce per l’arte contemporanea”, il “Laboratorio sperimentale di disegno e pittura” è nato nel 2003 all’interno del carcere romano di Rebibbia Nuovo Complesso, dove si è concretizzato in un corso per gli studenti di vari reparti e in classi dedicate a reparti singoli, come il G14 e il G11. Sono state proprio le difficoltà di questa particolare esperienza a diventare i suoi punti di forza e a farla crescere. In carcere, per esempio, le classi non sono mai omogenee, gli studenti sono tutti diversi per provenienza, cultura, età. Inoltre, la popolazione carceraria è formata soprattutto da persone appartenenti alle fasce sociali meno garantite e più marginali, spesso prive della minima istruzione scolastica. Se dici Giotto, Leonardo, Picasso o Lucio Fontana, è uguale, per molti sono comunque nomi mai sentiti. Il ritmo di avvicendamento, poi, è piuttosto veloce. In pochi mesi, gli iscritti a una classe possono cambiare tutti a causa di trasferimenti, uscite, restrizioni dovute a “motivi di sicurezza”, o altro. Tutto questo permette una sola forma di insegnamento: la relazione tra allievi e maestro avviene sempre nella modalità di “uno a uno”, vale a dire quella che favorisce un rapporto più autentico e rispettoso della singola persona e che consente di stabilire un dialogo diretto, in un contesto in cui la voglia di confronto è palpabile.
Ci sono studenti, anche di età avanzata, che non hanno mai preso una matita in mano e si domandano increduli cosa mai potranno fare. Molti vanno aiutati a superare il pregiudizio che disegno e pittura siano un gioco, una cosa futile, di poco conto. Quando invece si accorgono che si tratta di lavoro e impegno, c’è chi si tira indietro. “A me, quando ero ragazzo, mi piaceva disegnare, ma a scuola non ci andavo mai, mi piaceva di più camminare…”. Chi prosegue riceve però in cambio moltissimo. La creatività non è uno scherzo. Come forma aperta e dinamica del linguaggio, essa aiuta a comprendere e ad accogliere; ci libera da ogni certezza, ma ci restituisce una coscienza più profonda di noi stessi. Impone di essere più veri, costringe a misurarsi con le proprie insicurezze, i propri limiti, ma in questo modo facilita il nostro rapporto con gli altri. Ci permette di riappropiarci del “prezioso” che è in noi, al quale si può fare appello soprattutto in una condizione gravosa come quella della carcerazione. Chi subisce questa prova, infatti, è spesso costretto a riscrivere radicalmente la propria immagine, non soltanto per fare i conti con i propri errori, ma soprattutto per cercare di capire come condurre se stesso in un’avventura deprivante e coatta come questa.
La semplice disciplina del disegno è la prima via per riuscire a carpire qualcosa – ognuno a suo modo – dei segreti delle immagini. Un’immagine è pensiero, e leggere o costruire un’immagine vuol dire provare a pensare. In forma nuova, meglio che si può, fino in fondo. Imparare a “pensare visivamente” apre a una nuova consapevolezza del mondo e dell’esistenza.
Se mancano i materiali, bisogna arrangiarsi col poco che si ha. Ciò potrebbe divenire un vantaggio, dato che liberarsi del superfluo è un principio primario della creatività, ma non è semplice convincere di questo chi si sente privato, anche ingiustamente, già di troppo.
Il murale è il campo di battaglia più importante della pittura in carcere. Ogni metro di parete strappato al grigio e all’informe è una vittoria. All’estremo opposto c’è invece il proprio corpo, tatuato per esteso, senza limiti, di nascosto, di notte, usando come strumento quello che c’è, pure la rotella dell’accendino. Non è dunque improbabile che uno studente, durante la lezione, decida di mostrare alla classe l’esito del suo più recente lavoro, spogliandosi seminudo.
Nonostante l’impegno serio di molti operatori, il carcere è troppo poco un luogo di riabilitazione e di positivo reinserimento. Esso è la somma di tante colpe individuali, ma ancor di più è il segno di una grave colpa della società intera. Non si può nascondere che ragioni di disuguaglianza, sfruttamento, cattivo governo, ingiustizia, determinano e condizionano questa realtà, in gran parte rimossa dall’ipocrisia generale. Insegnare in carcere pone continuamente davanti agli occhi molteplici contraddizioni, e interrogativi a cui non è facile rispondere. Quando spiego agli studenti che la prima regola di un lavoro creativo è che “s’impara sbagliando”, o che forse innanzitutto “bisogna imparare a sbagliare”, e se si è molto fortunati si conserva questo dono nel tempo, “Allora, professò,” mi dicono ironizzando, “noi stiamo messi bene, perché qui abbiamo sbagliato tutti”.
Nota alle immagini I disegni sono stati tutti realizzati all’interno del “Laboratorio sperimentale di disegno e pittura” presso Rebibbia Nuovo Complesso, tra il 2003 e il 2009. Il “cadavre exquis” è una tecnica surrealista che permette di comporre un disegno (come in questo caso) o una frase in più persone, senza che nessuna di esse possa tener conto del contributo dagli altri. La prima frase storicamente ottenuta, e che dà il nome a questa tecnica, fu “le cadavre exquis boira du nouveau vin” (‘Il cadavere eccellente berrà il vino novello’). In pittura si lavora insieme alternandosi su uno stesso foglio, che viene ripetutamente piegato un maniera da non consentire a chi è chiamato a proseguire il disegno di conoscere ciò che è stato realizzato in precedenza dagli altri, se non in minima traccia. Gli esiti prodotti dall’utilizzo di questa tecnica possono rivelarsi sorprendenti e, analizzati insieme con gli studenti, aiutano a spiegare alcuni principi fondamentali del comporre per immagini, come per esempio l’importanza, a volte, di elementi incongrui o anche contraddittori che, intrecciati con fortuna, spezzano la logica convenzionale di un disegno.
Antonio Capaccio
(pubblicato su Education 2.0)