Le arti contemporanee vanno al liceo
Il “Laboratorio sulle arti contemporanee” del Liceo Tasso di Roma è nato nel 2003 per iniziativa di Fabrizio Fringuelli e mia, e con il sostegno dell’associazione “Brecce per l’arte contemporanea”. Pensato come un’esperienza propedeutica alle arti visive, in modo del tutto naturale ha progressivamente esteso il proprio campo d’indagine ad altre discipline: alla musica, alla letteratura, al cinema, alla filosofia. Sollecitato dal dialogo e dal confronto tra i diversi linguaggi, l’impulso alla creatività nasce quando ci si libera dalle distinzioni specialistiche, dalle definizioni e dai pregiudizi, e dal condizionamento più subdolo di tutti, quello rappresentato dall’autoreferenzialità.
Nel corso degli anni il laboratorio si è svolto secondo modalità differenti, individuate di volta in volta, ma sempre correlate tra loro. Abbiamo organizzato una lunga serie di incontri con autori che hanno portato agli studenti la loro testimonianza e l’esempio della loro passione. Fra gli altri sono stati invitati gli artisti Giosetta Fioroni, Claudio Olivieri, Ettore Sordini, gli scrittori Antonella Anedda, Silvia Bre, Erri De Luca, il compositore Mauro Bortolotti, la storica dell’arte Ester Coen, lo studioso di letteratura romanesca e di Giuseppe Gioacchino Belli, Marcello Teodonio. Ognuno di loro ha scelto la propria maniera per entrare nella scuola. Con frequenza costante abbiamo realizzato cicli di proiezioni di video e documenti filmici sugli autori citati e anche su altri, come Pablo Picasso, Man Ray, Marcel Duchamp, Luigi Veronesi, Bruno Munari, Marcello Piccardo, Pier Paolo Pasolini, Andrea Piccardo, Tommaso Massimi, Giampaolo Ascolese, Valerio Magrelli, Claudia Muratori, Volker Schreiner, Antonio Tamilia, Andrew Wrigth-Smith. Nel futuro prossimo l’Aula Magna del Tasso accoglierà nuovi incontri e cicli di concerti dal vivo, affidati anche a giovani interpreti.
In ambito più prettamente laboratoriale, gli studenti sono stati chiamati a svolgere esercizi ed esperimenti pratici. Il primo ostacolo da superare è il fatto che lo studio, in un liceo classico italiano, esclude per norma ogni tipo di attività creativa, e in particolare quella che passa attraverso il pensiero visivo e la costruzione di immagini. Apprendere mediante la manipolazione di forme, colori e materiali e, più in generale, prestare attenzione alla percezione sono considerati nella scuola poco più che attività infantili, occupazioni ludiche e ricreative da cui occorre discostarsi man mano che si cresce. Questo oscuramento educativo ha origini lontane, prende le mosse da un’antica diffidenza e da un atavico svilimento dell’esperienza sensoriale fondati sul presupposto che il vero sapere si trasmette esclusivamente mediante numeri e parole. Per aggirare un assunto così radicato, per far comprendere quanto il nostro rapporto con il mondo passi attraverso l’esercizio degli occhi e delle mani, non c’è modo migliore che sperimentarlo provando a fare insieme. Ciascuno avrà le proprie risposte e percorrerà la propria strada, ma tutti potranno entrare nel cerchio magico della creatività che, al contrario dei modelli competitivi e sopraffattivi, è il campo privilegiato dell’incontro e della cooperazione, dello scambio, della conoscenza reciproca.
Fondamentalmente, l’attitudine alla creatività e all’arte è un fenomeno tanto complesso quanto naturale. Così come non serve essere esperti di botanica per apprezzare la qualità di un paesaggio, di una natura rigogliosa, vitale o non corrotta, ugualmente ci si può avvicinare alle forme anche più elaborate del creare sorretti soltanto dalla propria sensibilità, senza timore di essere respinti. Se non occorre sapere niente per respirare un’aria pulita e comprendere che è un bene che va salvaguardato, con un’identica istintiva disposizione possiamo sentire come l’espressione della bellezza sia un puntello indispensabile per la nostra dignità di persone. Il legame tra arte ed eticità nasce dunque semplicemente, se solo ci facciamo condurre per mano dalla nostra più elementare vocazione di esseri umani. Sollecitati a lavorare insieme, gli studenti finalmente gettano la maschera. Si scopre che molti di loro già disegnano o dipingono, fanno musica, fotografia, recitano, seguono corsi d’arte o frequentano il conservatorio. Fanno tutto questo, spesso, quasi come cospiratori, di nascosto dagli insegnanti e a volte senza neanche condividere la propria passione con i compagni, come fosse una vergogna e nel timore, comprensibile, che qualche professore, avvertito del segreto, glielo faccia scontare come una colpa. In un liceo classico il laboratorio è rivolto agli studenti degli ultimi tre anni, dal momento che gli studenti del ginnasio nemmeno hanno tra i loro insegnamenti la storia dell’arte. Ma non si tratta di una scuola canonica di disegno o di pittura. Inoltre le ore sono poche e gli impegni molti, quindi ognuno degli esercizi che facciamo insieme deve raggiungere immediatamente il bersaglio. Lo scopo è innanzitutto fare intuire il valore basilare del ragionare per immagini: una forma di pensiero indispensabile, un nodo connettore di infinite conoscenze, utile a scardinare false certezze e ad aprire all’altro.
Divido gli studenti in due gruppi, e chiedo al primo gruppo di realizzare immagini del “brutto” e al secondo di raffigurare il “cattivo”. Fioccano le domande: “Cosa dobbiamo rappresentare? Una persona, un oggetto, una storia, un simbolo?” Ognuno deve scegliere la direzione in cui muoversi. Alla fine dell’esercizio i lavori vengono scambiati. Chi ha lavorato sul brutto riceve un disegno che rappresenta il cattivo e viceversa. Ora bisogna scrivere un titolo, una didascalia, un commento alla figura che ciascuno ha davanti agli occhi, ma descrivendo il brutto come se fosse il bello, e il cattivo come se fosse il buono. “Ma come faccio a definire come buona un’immagine di Hitler?” Certo non è facile. Bisogna inventare. Così il disegno di un’aquila nazista sopra una svastica (il cattivo, il male) viene chiosato come “la fiera aquila, il più nobile tra i volatili, trova riposo su un trespolo di bizzarra forma”. Un farabutto che tenta di derubare un’anziana donna minacciandola con un coltello diviene un gentile signore che, rivolgendosi alla vecchina, dice “Signora, le era caduto il coltello da caccia”. “Non sono brutto,” precisa un orrendo pupazzo, “sono diversamente bello”. Oppure “La diversità è un valore aggiuntivo”. O una definizione di bellezza “sublime”: “Bello è ciò che spezza l’armonia, che oscura, rovina, corrompe”. Si riflette così sull’aspetto convenzionale dei linguaggi, sul loro carattere strumentale, a volte mistificante, su come tutto ciò che può essere usato per dire la verità possa essere ugualmente usato per mentire. Niente più di un’immagine mette in moto passioni e desideri, essendo allo stesso tempo suadente e sincera, misteriosa e ingannevole. Quanto mai ambigua e sfuggente è poi la relazione tra immagine e parola: “A uno di costoro che adorano le immagini – si legge nei Libri Carolini, 794 d. c. – vengono presentate le immagini di due belle donne a cui non sono state apposte le iscrizioni. Quegli, disprezzandole, le respinge entrambe. Ma qualcuno lo avverte: bada che una di esse raffigura la Madonna, non va respinta; va respinta invece l’altra, che raffigura Venere. L’interpellato, allora, si rivolge al pittore stesso, e chiede a lui quale delle due sia l’immagine della Madonna, quale di Venere, perché sono in tutto somigliantissime. Allora il pittore a questa appone la scritta ‘Santa Maria’, a quella ‘Venere’”. In un altro esercizio chiedo agli studenti di rappresentare sul foglio, ciascuno a suo modo, un temenos, cioè un recinto sacro. In antichità, era un luogo destinato al culto di un dio o all’uso esclusivo di un re, o ad altre particolari attività, ma in senso lato è temenos ogni gesto o segno che istituisca un territorio o un campo di sacralità, di privilegio o di distinzione: il solco dell’aratro di Romolo che descrive i confini di Roma, la corona dell’Imperatore, l’alloro del poeta, l’ulivo degli atleti olimpici, ma anche lo scudo di Achille, segno indicativo dell’eroe, una raffigurazione dell’ordine cosmico forgiato dal dio Vulcano in persona, o la cornice pregiata di un’opera d’arte, il disegno del cuore graffito sul muro con dentro i nomi di due innamorati, o la grande vasca termale svuotata dell’acqua di Bagno Vignoni che Gorciakov, il protagonista del film “Nostalghia” di Andrej Tarkovskij, attraversa a piedi, da un bordo all’altro, con una candela accesa in mano, per assolvere a una promessa. La rappresentazione di questo confine sacro ha spesso la stessa rilevante importanza di quanto in esso è contenuto. L’atto che definisce un temenos può restituire identità e, insieme, creare discriminazione ed esclusione. Un temenos è anche l’emblema della scelta e della rinuncia, vi può abitare solo l’essenziale, soltanto ciò che riconosciamo come davvero prezioso. Nel dare vita a un temenos ci inoltriamo nel segreto del simbolico, gettiamo una sonda nel profondo del legame, oscuro ed enigmatico, tra la forma e il suo contenuto. Quanto tutto ciò possa essere rischioso, ci aiuta a comprenderlo la ragazza che, in lacrime, prova a spiegare ai compagni il disegno del proprio temenos, la sagoma di due chiavi accostate: spazio vuoto, perché in attesa di “qualcuno che ora non c’è, ma che spero presto ci possa essere”. Ma perché mai lavorare a consacrare quando la cultura e la comunicazione di oggi sembrano andare in una direzione diametralmente opposta? Dissacrare, trasgredire, deridere, vengono comunemente recepiti come atti di una cultura “progressista”, impegnata alla liberazione, all’emancipazione dell’uomo.
Storicamente questo aveva un senso in società costruite su norme e valori rigidi e cristallizzati. Ma oggigiorno, chi lavora a spazzar via ogni residuo di valore, in tal modo impoverendo la nostra capacità di critica, di dissenso, di opposizione, di diversità, favorisce invece l’esercizio di un potere – economico, politico, della comunicazione di massa – sempre più brutale, violento e senza regole. Quando lavoriamo, consiglio agli studenti di non cancellare mai quello che fanno. Cancellare, dico un po’ scherzando, è immorale. È un’affermazione che li fa discutere. Perché, si domandano, quando abbiamo la possibilità di correggere, di migliorare ciò che stiamo facendo, non possiamo approfittarne? Io rispondo che vivere la nostra creatività ci permette di comprendere meglio chi siamo e come siamo fatti. In quell’abbandono a noi stessi impariamo veramente, proprio perché vediamo le nostre particolarità, riconosciamo le nostre debolezze, ma non più come errori. Nessuno – a parte Bill Murray ne “Il giorno della marmotta” – può cancellare i propri sbagli e ricominciare ogni volta da capo, o da dove gli fa più comodo. Tuttavia, c’è un esercizio per il quale l’uso di una buona gomma è utile. Quando gli studenti mostrano i loro disegni finiti, ben fatti, in tutto e per tutto compiuti, a volte li invito a cancellare, togliendo il più possibile. È un modo per andare avanti, senza compiacersi troppo per quello che si è fatto. Qualsiasi immagine, anche la più riuscita e convincente, è solo una nuova interrogazione, un’apertura, una ipotesi da cui proseguire. In questo modo constatiamo fino a che punto possiamo fare spazio, ridurre all’osso, eliminare quello che sembrava indispensabile e invece era superfluo, era soltanto rumore, e così scoprire quanto sia vero ciò che scriveva Mies van der Rohe, il grande architetto, e cioè che “il meno è il più”.
Antonio Capaccio
(pubblicato su Education 2.0)