MUSICA E SOCIETA'
TAVOLA ROTONDA
(un progetto di Studiolo Laps, a cura di Francesco Bianco)
Università Tor Vergata
Roma, 12 giugno 2015
Discutono
il musicista e ricercatore Giorgio Nottoli
(Università di Roma Tor Vergata - Master in Sonic
Arts), la drammaturga e regista Roberta Nicolai
(Triangolo Scaleno Teatro), l'artista Antonio
Capaccio, l’attrice Maria Vittoria Pellecchia e
l’artista visiva Roberta Gentili (Teatro Tor Bella
Monaca).
Prefazione
Parlare di arte non è mai facile. Lo è ancora meno quando i presupposti dai quali parte il ragionamento sono concetti generali, capaci di racchiudere tutto e il contrario di tutto. L'interrogativo, tanto generale quanto fondativo, posto alla base del dibattito sul fare artistico contemporaneo è stato: quale funzione svolge l’artista, e in particolare il musicista, in seno alla nostra società? La tavola rotonda è nata, quindi, dalla necessità di capire se effettivamente vi sia un reale confronto fra l'arte e la realtà sociale, se vi sia un'effettiva rappresentanza, non solo rappresentazione, della realtà e del presente da parte dell'arte. Ciò che sorprende leggendo questi atti, risultato della tavola rotonda intitolata Musica e società, è la capacità dei relatori di raggiungere con le loro parole concetti profondi, di evitare il banale, la voglia di esporre le proprie idee sulla realtà dell'arte e di dibattere sui problemi esistenti, la sensazione che tutto ciò sia necessaria alla sopravvivenza di un'arte viva e presente nel mondo. Il confronto, la fusione e la confusione, sono posti come essenza dell'intera iniziativa, Slaps-pourri.1. Uno dei concetti più interessanti, portato alla luce da Roberta Nicolai, è stato, infatti, quello di comunità: ciò di cui si sente molto la necessità è l'incontro fra gli artisti, lo scambio e l'unione fra questi, una via per reagire all'individualismo imperante in tutta la società: "Io credo che il concetto di comunità possa essere la chiave all'interno di un progetto di ricollocazione dell’artista nel suo ruolo sociale: non ce la si può fare da soli, non si può rimanere confinati dentro il modus operandi secondo il quale divento il fine della mia stessa ricerca. Bisogna invece confrontarsi". Il superamento dell'autoreferenzialità sembra essere un altro punto importante del dibattito. Giorgio Nottoli precisa, infatti, che la cultura si sviluppa in un contesto e che oggi questo contesto è quasi sparito: "É essenziale che ci sia un contesto di confronto e critica, di dibattito, perché senza una discussione le persone non si abituano a discutere e finiscono col non discutere affatto". Antonio Capaccio sposta l'attenzione su altri aspetti per nulla secondari, come quelli legati agli effetti degli sviluppi tecnologici sulla produzione artistica e sull'arte in generale. Un effetto che Capaccio sottolinea e che sembra essere di peso fondamentale rispetto alla società tutta e allo stesso tempo per nulla considerato nella sua importanza è "La coscienza dell'errore, come visione critica". Imputa, allo stesso tempo, all'artista una responsabilità nell'uso cosciente della tecnologia. Anche Capaccio sente la necessità di ribadire la necessità del dialogo, mantenendo, al contempo, come soggetto il linguaggio: l'artista deve essere una figura di alternativa sia di pensiero che di visione. Senza sciorinare qui tutto ciò che è stato detto, bisogna dire che i contesti in cui il dibattito avviene in termini di linguaggio, comunità, uso cosciente della tecnologia, sono davvero rari. Il discorso sull'arte sembra essersi ridotto ad analisi banalmente estetiche o a spiegazioni puramente tecniche. Ciò che sembra interessare, quasi in assoluto, è lo strumento, ovvero il come fare le cose, come risolvere i problemi tecnici, come utilizzare un certa tecnologia. Ciò che invece sembra sempre più lontano dal dibattito e soprattutto dall'arte sono i perché: perché fare determinate scelte linguistiche, perché utilizzare determinate tecnologie, etc. Il come fare le cose, problema pienamente ingegneristico, scientifico, ha surclassato in maniera stupefacente il perché fare le cose, problema puramente intellettuale, filosofico e artistico. Il mondo dell'arte non ha fatto altro che soccombere, come tutti gli altri ambiti della società, alle più semplici e antiche idee del capitalismo borghese: il progresso tecnologico, l'industrializzazione di ogni aspetto della vita, la legge di mercato a metro di tutto. Non siamo più abituati a farci domande e ad immaginare risposte diverse da quello che vediamo sotto i nostri occhi.Ad aprire il dibattito è stata la lettura di dati ISTAT, Indagine multiscopo sulle famiglie “I cittadini e il tempo libero” del 2006, ultimo studio utile riguardo all'argomento in questione. Ulteriori e complementari interrogativi che hanno animato la tavola rotonda sono stati: - Stretti tra la tradizione passata e il progresso tecnologico sempre in divenire, come si può trovare una propria narrazione? - Siamo ora in grado di produrre un pensiero, un discorso personale, attuale, nuovo, che sappia rappresentare noi e la società in cui viviamo? - La frenesia del progresso ci permette di avere i tempi necessari per approfondire il ragionamento linguistico relativo all'arte? (Francesco Bianco)
Roberta Gentili – Mi piacerebbe iniziare parlando dell'esperienza che abbiamo organizzato al teatro Tor Bella Monaca nell'anno appena trascorso, con la manifestazione Tor Bella Musica, appuntamento settimanale affidato alla direzione artistica di un musicista. L'intento era quello di fidelizzare il pubblico con un appuntamento settimanale dedicato alla musica, abituando all’ascolto di generi che difficilmente si fruiscono in teatro. Inizialmente la partecipazione non era molto alta, nonostante presentassimo generi popolari e diversificassimo la proposta. Nell'ultimo appuntamento, un tributo a Rino Gaetano, c'è stata, invece, un'esplosione di pubblico. Abbiamo visto crescere la partecipazione, soprattutto quella di persone di età medio-giovane, aspetto che mi sembra interessante considerare rispetto al rapporto fra musica e territorio. È stata una sfida, ma i risultati finali si sono visti. Pensavamo di aprire anche uno spazio dedicato alla musica elettronica. In questo contesto il legame con il pubblico è molto forte e si potrebbe pensare a progetti artistici che riescano ad approfondire questo legame e l’impegno sul territorio.
Maria Vittoria Pellecchia – Aggiungo che un timido approccio all'elettronica, al Teatro Tor Bella Monaca, lo abbiamo avuto prima di riuscire ad avere un rapporto più intenso con chi frequenta il teatro. Abbiamo realizzato il Contest delle sonorizzazioni, con giuria costituita sia da musicisti che da professionisti della radio e del teatro. Ma nel pubblico non c'era nessuno del territorio. Successivamente abbiamo ragionato su un programma che potesse arrivare alle persone in maniera più immediata. Adesso che abbiamo fidelizzato il pubblico vorremmo fare un passaggio ulteriore, coinvolgendo le realtà del territorio. Una cosa che, invece, ha funzionato molto bene è stata la proposta di concerti di musica classica la domenica mattina.
Roberta Gentili – Quello che abbiamo riscontrato è che il pubblico va “educato”: non tutti hanno strumenti per comprendere linguaggi nuovi. Quello che va capito è che ci vuole una strada diversa per arrivare alle persone che sono intorno al Teatro Tor Bella Monaca, e più in generale nei quartieri di periferia. Bisogna far sentire le persone parte di qualcosa, una parte attiva. Bisogna scoprire il territorio: andare fuori dal teatro e tirare dentro il pubblico. L'offerta è, generalmente, molto standardizzata; invece, se si offre un diverso tipo di linguaggio, la risposta c'è, perché il pubblico lo vuole. Il teatro ha bisogno di questo pubblico, ma anche il pubblico ha bisogno di questo teatro. Perciò al Teatro TorBella Monaca offriamo una programmazione molto variegata, dal teatro alla danza, dalla musica al teatro per ragazzi, alla prosa, etc. Questo ovviamente richiede tempo, ma qui si entra in altro discorso, cioè quanto tempo viene lasciato ai teatri per lavorare: infatti un rapporto con il pubblico non si crea in due o tre anni, ma almeno in cinque anni. Il punto è: cercare di interessare.
Roberta Nicolai – Il discorso che fanno loro è sacrosanto e giusto. Ma riguarda gli spazi, i presidi culturali, che devono ragionare in questo modo, creando un ponte fra gli artisti e il pubblico. Ma perché la gente non va a teatro, oppure ad un concerto? È una ricerca che l’Europa fa, con l'eurobarometro, ricerca che ci fornisce il motivo per cui in Europa la parola cultura non rientra nelle linee programmatiche: sostanzialmente perché agli europei la cultura non interessa. E allora, per andare al nostro argomento, la funzione dell'artista in questa società: l'artista in questo momento non ha una funzione sociale. Anche se possiamo pensare di avere una responsabilità del fare arte. Per me, l'arte èimprescindibilmente un atto politico, come lo è anche il dialogo con la tradizione, inteso come rompere una consuetudine e contrapporvi altro. Ma ormai non c'è più nessuno che analizza come si sposta l’animale umano: cosa siamo, da dove veniamo e dove andiamo. La responsabilità sociale e politica, però, noi artisti continuiamo a sentirla e potremmo pensare che ridare un ruolo sociale all'artista, oppure fare in modo che gli artisti sentano la necessità di doversi riappropriare di un ruolo sociale, possa essere un progetto da costruire. Il contesto in cui noi ci muoviamo – non a caso io parlo dell'Europa – è, in realtà, costituito da tanti presidi territoriali: continuano ad esserci i festival, ci sono i teatri e, in fondo, nonostante la crisi, tutti stanno ancora in piedi, ma, tutto ciò, tange una porzione talmente minima della popolazione europea da essere ininfluente rispetto al contesto generale. Per cui una domanda dobbiamo porcela. È evidente che questo è un contesto che non nasce oggi, che è stato costruito negli ultimi decenni e non riguarda solo l'Italia. Potremmo pensare di essere un'anomalia in negativo, ma in realtà non è nemmeno così. È chiaro che a Parigi i teatri sono sempre sold out e che quindi lì c'è una centralità del teatro che qui da noi non ha avuto il tempo di affermarsi. Però è vero che dagli anni Novanta in poi, oltre alle trasformazioni tecnologiche, il contesto italiano ha subito anche altre trasformazioni. Parlando di teatro, argomento che conosco meglio, quelle compagnie che erano ancora una sorta di famiglie, di case-baracconi, grazie alle riforme che sono state messe in campo con la creazione del FUS – Fondo unico per lo spettacolo – e alla conseguente richiesta, per l'accesso al fondo, di parametri e di numeri produttivi di caratura differente rispetto a prima, si sono dovute necessariamente trasformare in imprese. Ora, l'ultima riforma che riguarda lo spettacolo dal vivo, il “Decreto Cultura 2013”, attuato con regolamento del Ministro dei Beni e delle Attività Culturali nel 2014, pone in maggior rilievo i fattori economici, avvilendo ciò di cui noi siamo portatori e, cioè, la qualità artistica che pesa solo per il 30% sul punteggio totale per l'accesso ai fondi. Inoltre, siccome la prima scrematura dei progetti da sovvenzionare avviene a livello numerico, essa di fatto vale ancor meno. Questo è il contesto e con questo contesto bisogna ragionare necessariamente e non c'è altra possibilità, credo, per un direttore artistico. Se io voglio far finanziare il mio festival, sapendo che non lo posso commercializzare, in quanto io programmo quella che, impropriamente, si può chiamare ricerca, sperimentazione, appartenente all'area del contemporaneo, devo per forza farmi sostenere da finanziamento pubblico, non posso affidarmi allo sbigliettamento. Ma se ho bisogno del finanziamento pubblico ho necessità di tenere conto del contesto, di studiarmi questi Decreti ministeriali, di fare un progetto che possa rispondere a quei paletti. Inoltre, a mio parere, c'è un altro aspetto da considerare attualmente. L'artista si è trasformato in colui che, troppo spesso, è complice di questa situazione di crisi e di deriva: l'autoreferenzialità degli artisti negli ultimi decenni si è acuita, anche a causa del fatto che il contesto non è in grado di rispondere alle loro esigenze nella maniera più assoluta. Essi si chiudono in sé stessi e diventano strumento e fine della loro stessa ricerca, cosa che rende impossibile avere un ruolo sociale. C’è una compartecipazione dell’artista in questa situazione. Inoltre, c'è un altro elemento da considerare. Oggi, a questa tavola rotonda, stiamo benissimo a discutere tra di noi; però lo scarso interesse da parte del pubblico è la riprova che non esiste una comunità o comunque se c'è, è molto frammentata. Con il C.R.E.S.C.O. – Coordinamento nazionale delle realtà della scena contemporanea –, del quale sono presidente, abbiamo cercato di portare avanti un discorso sulla comunità artistica e fare in modo che insieme si riuscissero a portare avanti delle istanze che fossero sia politiche che poetiche; io penso che questa sia una delle possibilità per gli artisti. Il C.R.E.S.C.O. raggruppa in tutta Italia oltre 100 fra festival, artisti, compagnie, tutti legati alla danza e al teatro contemporanei, una realtà molto variegata. In questo contesto è difficile approfondire aspetti poetici in quanto l'immediata necessità ci porta ad affrontare tematiche legate al welfare, alla discussione sui nuovi decreti ministeriali ecc. e, di conseguenza, si crea un dibattito molto politico mentre l’aspetto poetico è quello che fatica di più ad emergere. Io credo che il concetto di comunità possa essere la chiave all'interno di un progetto di ricollocazione dell’artista nel suo ruolo sociale: non ce la si può fare da soli, non si può rimanere confinati dentro il modus operandi secondo il quale divento il fine della mia stessa ricerca. Bisogna invece confrontarsi. Se una possibilità c'è, sta proprio in questo: nella connessione che ci può essere tra la singolarità artistica e la pluralità della comunità di riferimento, la quale può essere una piccola cerchia, ma deve poter avere una sua viralità, una sua forza di ampliamento. Io non vedo altre strade.
Antonio Capaccio – L'argomento è vastissimo e stimola molte riflessioni: il concetto di comunità di artisti, l'idea di assumere dei ruoli, delle responsabilità. Io ho percorso una vita intera cercando di perseguire questi scopi e, devo dire, purtroppo, con risultati molto incerti, molte frustrazioni. È chiaro che ci sia una debolezza enorme degli artisti. Siamo di fronte ad uno scenario tecnologico difficilissimo da gestire che rappresenta, insieme al mondo multimediale, una grande potenzialità, ma, nello stesso tempo, una calamita fortissima che rende passivi, annullando le intenzioni creative, seguendo un'idea fraintesa di condivisione, o di consenso che trasforma totalmente quello che era il ruolo dell'artista nella cultura ereditata. Ruolo che era, in qualche modo, quello di proporre un'alternativa sul piano della sensibilità e del pensiero. Non mi sembra che di questa enorme folla di creativi che abbiamo adesso, la gran parte faccia questo. Tra l'altro, quando io ho cominciato a lavorare, sul finire degli anni Settanta, gli artisti erano molto pochi; poi, improvvisamente, grazie a questo grande sviluppo tecnologico, è arrivata una gran quantità di cosiddetti artisti. Ma chi sono? Sono tutti artisti? Adoperano delle tecnologie, delle tecniche, che permettono di mettere in campo con facilità qualche cosa, ma sul piano della coscienza non è che abbiamo grossi risultati. A volte mi metto a ragionare sul fatto che, parlando di una cultura ereditata, ci riferiamo innanzitutto a un mondo dove l'uomo comune, nella sua esperienza quotidiana, non ascoltava quasi mai musica, non aveva di fronte immagini se non, magari per tutto l'anno, lo stesso campo da coltivare e, in quel mondo, c'era una cultura artistica che, pur adoperando delle tecniche e degli strumenti molto essenziali, anche poveri rispetto a tutto quello che noi abbiamo a disposizione oggi, più vicini alla zappa del contadino, come lo scalpello ad esempio, produceva qualcosa che era mosso da una forte energia creativa, una forte coscienza e un forte pensiero critico, molto determinato e complesso sul piano del linguaggio. Quindi, se parliamo di responsabilità degli artisti, dobbiamo porci innanzitutto questa domanda: come possiamo aspettarci una responsabilità da un esercito di incoscienti? Un altro problema sul piano della responsabilità, che però è un problema politico che non riguarda soltanto gli artisti, gli intellettuali, quanto piuttosto la società di massa in generale, è l'evidente fallimento delle democrazie moderne. Mi viene in mente una cosa che scriveva negli anni Cinquanta Walter Gropius parlando del Bauhaus, dicendo, cito a memoria, non alla lettera: “noi abbiamo lavorato sull’idea di standard pensando di portare in questa maniera la bellezza nel mondo, ma quando lo standard è diventato quello che noi conosciamo, cioè un abbassamento diffuso del livello della qualità, allora abbiamo fallito”. Non basta far arrivare a tutti una radio o un frigorifero se non c'è la possibilità di veicolare allo stesso tempo contenuti di coscienza e di conoscenza, di bellezza, quelli che ritroviamo nella cultura che definiamo elitaria, che in realtà può arrivare a tutti, però soltanto se c'è anche una volontà politica. Quindi, in questo non può esserci soltanto la responsabilità degli artisti, ma di tutti. Io non mi assolvo dalle mie responsabilità e penso che il primo dovere sia lavorare sul linguaggio. L'elettronica, la tecnologia rovesciano quelle che sono le nostre aspettative su ciò che è naturale e ciò che è artificio. Noi dovremmo, ad esempio, porci delle domande rispetto a questo: alla natura, se c'è un orizzonte naturale indispensabile da salvaguardare e che rapporto abbiamo con esso. Questa dovrebbe essere, per esempio, una responsabilità degli artisti, insieme all'uso cosciente della tecnologia. Abbiamo visto delle statistiche che dovrebbero essere aggiornate, poiché la funzione della musica in pochi anni è cambiata totalmente grazie alle nuove tecnologie che hanno subito un enorme sviluppo. Io mi trovo spesso a ragionare con gli studenti sul concetto essenziale di errore: lo sviluppo tecnologico di cui siamo testimoni, così rapido, così repentino, non nutre più in sé questo valore essenziale, la capacità di passare attraverso l'errore. L'errore, la coscienza dell'errore, come visione critica e assunzione di responsabilità rispetto al proprio operare. Se io dico agli studenti di adoperare la matita senza usare la gomma, loro rispondono: “ma perché? Perché non possiamo correggere, neanche con una gomma?”, dato che tutta la loro esperienza è costruita su questo disimpegno totale: correggere sempre tutto, grazie alla tecnologia che, almeno in apparenza, sembra proteggere da ogni rischio. Questa è una grande responsabilità.
Giorgio Nottoli – La responsabilità: il problema è enorme. Negli ultimi anni del mio lavoro di docente presso il Conservatorio Santa Cecilia di Roma ho diretto un festival internazionale che ho costruito insieme ai miei allievi. All'inizio eravamo sbalorditi perché arrivavano centinaia di brani da tutto il mondo, una cosa impressionante. Questa esperienza fondamentale, per me e forse anche per gli allievi, mi aiuta a inquadrare alcuni aspetti. Vorrei partire da certe parole che sono state dette e che mi sembrano fondamentali: la prima è comunità. Altre, che mi sono piaciute moltissimo, sono: il pubblico lo vuole, come una bandiera di ottimismo, di fede, mentre si potrebbe pensare che il pubblico non voglia proprio niente. Invece, esso ha bisogno di qualcosa, forse non sa di cosa, perché quelle che dovrebbero essere le coordinate della comunità, le coordinate culturali, sono negate al pubblico, per cui si sente questa mancanza, mancanza che viene poi riempita con una quantità di sciocchezze che compriamo, che ci vengono distribuite dalla tv e via dicendo. Questo è un discorso vecchio che sento dagli anni Sessanta. Allora eravamo disperati e le cose, sotto qualche aspetto, sono peggiorate. Vorrei tornare alla parola comunità. Quand’è che il pubblico con piacere si avvicina all'ora di un concerto, ad ascoltare musica? Quando quella musica è in un contesto in cui ci si riconosce come comunità. In generale, nelle situazioni dell'antica tradizione, queste coordinate erano generate dalle persone stesse: quella cultura nasceva lì e in quel contesto veniva coltivata, conservata, fatta progredire. Attualmente, noi artisti, siamo abituati a lavorare con oggetti artistici e aspetti linguistici ed espressivi in un contesto in cui le persone a cui ci rivolgiamo non si riconoscono in questo prodotto. Quindi, tutti i problemi di cui stiamo parlando, se problemi sono, provengono da questo. Nell'esperienza fatta con EMUFest – Festival internazionale di Musica Elettroacustica al Conservatorio di Roma –, e in altri casi di questo tipo, verrebbe fuori proprio questo e non è una cosa né pessimistica né ottimistica; il mondo è fatto di comunità. Noi siamo la comunità dell'elettroacustica, siamo pochi? Sì, ma siamo in tutto il mondo, in tutte le università, in tutte le nazioni del mondo. Se si organizza un festival e si fa un bando arrivano centinaia di opere; se si fa un po' di pubblicità, ne arrivano migliaia. Dobbiamo pensare che vengono prodotti più di mille nuovi pezzi all'anno, facendo una valutazione di massima, ma potrebbero essere anche di più. Ad EMUFest arrivano circa trecento pezzi nuovi all'anno, una cosa enorme. Consideriamo anche tutti quelli che non ce li spedivano. Quindi, questa comunità c'è. Qual è il problema? Questa comunità si basta. Quando parliamo della nostra comunità, parliamo di una comunità che è appoggiata alle istituzioni e che fa un'attività di diffusione che è minima. Come si fa ad aumentare il nostro pubblico? Aumentando il numero degli adepti alla comunità. Avevamo iniziato un progetto che non siamo riusciti a portare avanti per questioni di soldi: andavamo nei licei, facevamo una spiegazione ai ragazzi, ci si scambiavano gli indirizzi email, tutti dicevano che sarebbero poi sicuramente venuti al Festival; ne veniva uno, però bisogna andare avanti, continuare per anni. Bisogna pensare che per un ragazzo di oggi andare a un concerto è qualcosa fuori dal normale. Nella nostra nuova musica si parla di tante cose, oltre che nei testi anche nel modo stesso in cui viene scritta la musica): dell'uomo, della morte, ecc., aspetti difficilmente trattati nelle canzoni che generalmente ascolta un giovane quindicenne. Un altro punto fondamentale è quello economico. Dato che nel nostro mestiere di compositori non esiste un rapporto economico con la realtà sociale, noi compositori siamo fuori dal contatto con la società. Di conseguenza, il nostro non è più un mestiere, al contrario di come succedeva una volta, quando c'era un minimo riscontro sulla base di contributi degli Stati. Se non c'è questo rapporto economico, necessario, non si esiste. Io, ormai, sono in pensione, scrivo molta musica, però il mio rapporto con il mondo è finito, non c'è un rapporto economico; partecipo a festival, manifestazioni, eventi, ecc., ma il mio rapporto non è con il cuore della società, che è un cuore di capitali. Come è stato detto prima, la necessità di un rapporto con l'arte esiste. Ma affinché il pubblico si riconosca in un'attività musicale e artistica non conta quasi nulla fruirne, bisogna praticarla, bisogna coinvolgere le persone praticamente. Andare ad ascoltare un artista è una cosa che viene dopo, prima è necessario praticare, e non bisogna porsi il problema che ciò sia una cosa troppo difficile da realizzare e quindi non la si fa. In realtà, in pochi giorni si può già arrivare ad avere una prima esperienza. La libertà non la conosce nessuno, mentre è una delle caratteristiche più importanti delle nostre musiche, poiché non c'è la costrizione.
Antonio Capaccio – Voglio aggiungere soltanto una cosa riguardo a ciò che diceva Giorgio. Rispetto alle statistiche che abbiamo visto all'inizio, sarebbe interessante capire quante persone hanno cominciato a frequentare concerti e spettacoli dal vivo dopo, ad esempio, i 15 anni. Quanti hanno iniziato in età matura? Penso in pochi. Credo che bisognerebbe dare l'opportunità alle persone di avvicinarsi all'arte per tempo. Di crescere a contatto con la cultura, con autentiche esperienze formative.
Giorgio Nottoli – Io vedo in queste statistiche un problema: le persone che realizzano questi studi dovrebbero essere educate loro stesse, in quanto, probabilmente, hanno un'idea superficiale del mondo musicale, forse perché a loro non importa niente. C'è un grandissimo problema: dobbiamo valutare il fatto di entrare con la nostra produzione artistica nel discorso del mercato, del consumo? Io a questo di solito non penso.
Francesco Bianco – Purtroppo però ricadiamo sempre nel problema economico, perché non avendo capitali sotto nessun punto di vista, una soluzione bisogna pur trovarla.
Giorgio Nottoli – Sì, assolutamente. Penso che un feedback, non voglio dire soltanto economico, sia importante. Ho notato che per me è stato importante avere un riscontro come musicista, malgrado fossi già molto anziano. Con le sei edizioni di EMUFest sono sicuro che la mia musica è migliorata, perché c'è stato uno scambio che prima era decisamente minore e ho visto anche i miei allievi migliorare. Forse è giusto cercare un feedback nella società in qualche modo, però non si può vendere l'anima di quello che facciamo. Ricordo tentativi abbastanza ridicoli di trovare un riscontro con un pubblico più vasto utilizzando stilemi supposti accattivanti. Come, per esempio, quello attuato dalla corrente dei neoromantici. Essi, a mio parere, non riuscirono ad ottenere il riscontro di pubblico sperato. Malgrado i compositori appartenenti a questa corrente utilizzassero degli stilemi di fine Ottocento, alla base delle loro opere persisteva comunque un pensiero compositivo, ovvero qualcosa che obbliga il pubblico ad uno sforzo di comprensione. Il problema, quindi, non è la superficie del linguaggio, il problema è il linguaggio.
Francesco Bianco – Una cosa sulla quale ho riflettuto spesso è che mi sembra ci sia sempre più difficoltà a confrontarsi con il diverso, con qualcuno che la pensa in maniera diversa oppure con qualcosa che non è categorizzato e categorizzabile in maniera semplice e, di conseguenza, più passa il tempo più perdiamo la capacità di confrontarci.
Giorgio Nottoli – Dobbiamo impedire assolutamente che questo accada: è un nostro dovere, anche se il conformismo è una buccia di banana per tutti.
Francesco Bianco – Io penso che il pregiudizio sia un altro aspetto sociale di questa questione: quasi come il razzismo nella società, così ascoltare un brano di musica che non corrisponde a canoni che abbiamo già stampati nella testa può risultarci sempre più difficile. È sempre più difficoltoso il rapportarci con qualcosa di diverso.
Antonio Capaccio – Su questo non sono d'accordo, sono questioni molto diverse. L'intolleranza mi sembra, semplificando, che cresca parallelamente all'affermarsi dell'idea di pseudo-globalizzazione, di comunità intesa in senso negativo, di pensiero unico, cosa che poi in realtà non funziona anche perché è un modello di potere sostanzialmente. Ma l'intolleranza, la difficoltà verso il libero pensiero è un altro discorso: bisogna accettarla secondo me, bisogna correre il rischio. È un discorso sul linguaggio, è un discorso di coscienza, molto difficile da praticare oggi. Mi viene da pensare a quando, in anni giovanili, forse era il 1970, mi è capitato di ascoltare a Santa Cecilia un pezzo di Luigi Nono, Per Bastiana, con il compositore che poi esce, per così dire, a prendere l'applauso. Io non avevo mai sentito tanti insulti tutti insieme. Mi è poi capitato di assistere a cose analoghe anche negli anni successivi. Questo accadeva perché allora esisteva un sistema alternativo di pensiero che faceva attrito con le consuetudini culturali; adesso invece lo stato attuale delle cose produce tante espressioni, tanta materia, ma poca alternativa.
Francesco Bianco – Purtroppo anche all'interno della stessa comunità, anche lì dove si fa sperimentazione, molto spesso si rischia di standardizzare il discorso.
Giorgio Nottoli – Bisogna anche dire che c'è una forte saturazione. Quaranta o cinquant’anni fa, per esempio, c'erano diverse scuole di pensiero musicale. Ricordo che ascoltavo nel '69 per la prima volta musica contemporanea ed elettronica: Stockhausen, nel suo in Aus den sieben tagen, un esecutore che piantava i chiodi sul tavolo. Tutto questo fu trasmesso al Tg1, in televisione alle 20:00 (oggi sarebbe impensabile). Io ero lì, al concerto alla Fenice e c'erano persone fra il pubblico con la sacca piena di pomodori e li tiravano urlando a Stockhausen: “Nazista! Capitalista!”. Ecco, era molto vissuta la faccenda. Però bisogna dire che, anche lì, era una cosa che riguardava un’elite, importante per carità, ma lontana da persone senza cultura musicale.
Francesco Bianco – Ma forse potete aiutarmi a capire voi meglio: sembra che in passato ci fosse la capacità e la voglia di esprimere il proprio pensiero e si sapeva di poterlo fare anche in maniera forte, cosa che oggi non mi sembra riscontrare.
Giorgio Nottoli – In realtà ho visto in voi giovani invece una dimensione molto interessante in questo senso. Bisogna pensare che allora tutti erano stati a Darmstadt – grande punto di riferimento per la musica contemporanea –, erano tutti figli di Darmstadt, tutti venivano da lì, tutti i giovani e tutti i grandi nomi e quindi avevano quelle sole coordinate. Era una comunità chiusissima. Voi invece siete molti di più, siete una comunità di centinaia di persone in Italia e avete una maggiore libertà. Certo, c'è una saturazione linguistica incredibile. Per esempio, l'idea dell'interculturalità, che allora non immaginavamo nemmeno, oggi è una strada, come quella che pratica il giovane compositore Aly Ostovar, con noi oggi: lui studia in Germania ed è persiano e ha la fortuna di mediare fra la nostra cultura e la cultura del suo paese. È vero, sono strade diverse.
Antonio Capaccio – Anche questa è una questione. Il fenomeno dell'esotismo c'è sempre stato e, attualmente, le tante culture con le quali veniamo a contatto vengono filtrate in un sistema di comunicazione unico e ogni contenuto deve essere corretto secondo un certo modello. È un problema. Esiste un modello unico di cultura che è prepotente e con il quale è difficile dialogare.
Roberta Nicolai – Vorrei soltanto specificare una cosa. Quando parlavo di comunità avevo premesso che non esiste attualmente una comunità. Penso, piuttosto, che questa possa essere oggetto di un progetto, il punto di avvio di un processo di ricostruzione. Cosa vuol dire comunità? Su questi concetti alcuni filosofi hanno riflettuto: comunità non c'è, perché siamo in un’epoca in cui l'individualismo ha preso il centro della nostra cultura occidentale. È uno scenario molto compatto che si è costruito negli ultimi decenni. In questo scenario la comunità non esiste spontaneamente, esistono delle comunità temporanee, liquide, diffuse, attraversabili. Ma dov'è la questione per l'artista? Senz'altro è nella responsabilità rispetto al linguaggio: ciò che io chiamo qualità artistica, avere fortissima coscienza linguistica, ma anche etica e politica del proprio fare artistico. Per uscire dalla situazione di costrizione in cui ci troviamo in questo momento, l'unico modo in cui l'artista può praticare la sua arte è scambiandola con altri, incontrando gli altri, aprendo zone di confronto, senza sapere in anticipo esattamente dove sta andando. In questo senso, la ricostruzione di piccoli nuclei di comunità capaci di ampliarsi nel tempo o semplicemente di entrare in profondità nel linguaggio artistico più di quanto possa fare un singolo, mi sembra essere una possibilità. Non si può rincorrere il mercato, è un errore! In questo momento la Comunità Europea si è data l'obiettivo di rincorrere la Cina. A mio avviso, è un errore storico. L'Europa dovrebbe aprire uno scenario completamente diverso. Quale? Purtroppo non lo so, è un qualcosa che va costruito. Se, ad esempio, una nuova etichetta musicale si pone l'obiettivo di rincorrere il mercato è morta prima di cominciare. Non è possibile sia perché sullo stato di salute di questo mercato ci sarebbe molto da dire – è un mercato che sta implodendo su se stesso ed è quindi difficile muoversi in una cosa tossica –, sia perché in questo contesto, anche utilizzando tutti gli strumenti di comunicazione che possiamo mettere in campo, serve solo fare più rumore e non fare cose più belle per emergere sul mercato. Quindi a noi non interessa. Se quel mercato premiasse il bello, allora potrei pensare di sottomettermi a questa forca caudina, ma invece devo solo urlare più forte; e allora neanche i sistemi di comunicazione rispondono agli obiettivi centrali del nucleo artistico. Quale scenario individuare questo non lo so, ma ognuno da solo rischia di individuare uno scenario asfittico e autoreferenziale, minuscolo e frustrante e nel tempo perde il controllo, necessariamente si tira fuori dal mondo. Un artista non lo può fare, a chi parla se si tira fuori dal mondo? A se stesso è troppo poco. E quindi vedo nel concetto di comunità la possibilità di sperimentare, la maniera di ricostruire un luogo o un progetto intorno al quale, dandosi anche un tempo lungo, si riconnettano dei nuclei centrali del nostro fare artistico, e da lì, magari senza rincorrere il mercato, aprire un'altra modalità di contatto con il pubblico, un altro modo, che non possiamo conoscere prima e che forse è bene non conoscere, altrimenti rischieremmo di restare dentro i soliti schematismi: concerti, teatri, cd, ecc. Magari il mio fare artistico ha bisogno di crearsi un contesto specifico in cui esprimersi, senza porsi l’idea di conquistare un mercato che sta da un'altra parte e fatica esso stesso a rimanere in salute. Continuo parlando ancora di Europa e dei fondi strutturali europei, ovvero come gli stati dell’Europa trasformano le linee elaborate dal Parlamento europeo. Dietro la parola ricerca, per l'Europa, c'è la ricerca umanistica, scientifica, musicale, c'è qualsiasi tipo di ricerca, giustamente. Io potrei, quindi, farmi finanziare uno studio filosofico o, piuttosto, uno studio andrologico. Ma lo stato italiano declina questi fondi soltanto alla ricerca scientifica e per la Regione Lazio, dietro questa parola, c'è la ricerca farmaceutica e chimica. Quindi, è chiaro che c'è in campo in questo momento anche una contraddizione: da una parte c'è una cultura di pensiero occidentale che accoglierebbe nelle sue linee addirittura anche il concetto del processo di creazione artistica: per l'Europa il processo e il prodotto in campo culturale valgono lo stesso, non è detto che io debba farlo lo spettacolo, potrei anche solo pensarlo e questo potrebbe essere finanziato. Ma se poi vediamo come gli Stati membri e le regioni declinano questi concetti, finisce che bisogna lavorare con modalità più banali, altrimenti non si otterrà mai un finanziamento. È una contraddizione in cui noi viviamo in mezzo: da una parte il pensiero occidentale conserva una sua densità, una sua profondità in cui noi non ci sentiamo privati di cittadinanza, anche se potremmo; dall’altra, però, le strettoie legate alle pressioni dei gruppi economici, la politica, le urgenze, questi ultimi 10 anni di pseudo-crisi, fanno sì che ancora di più ci si ritrovi senza cittadinanza. È questo il punto in cui siamo oggi. È sempre molto bello sentir parlare del nascere di comunità spontanee negli anni Sessanta o Settanta, è sempre una boccata di vita. Però non siamo più lì.
Antonio Capaccio – Io sono perfettamente d'accordo. La comunità, per esempio, come cercarla? Una cosa che mi viene da dire in base alla mia esperienza è che il cercare di uscire da microcosmi, da questioni corporative e cercare il confronto fra linguaggi, fra diverse arti dovrebbe aiutare a individuare tematiche condivise. Ma di questo non abbiamo molti esempi. Non è una questione così marginale, c'è sempre bisogno di un profondo lavoro sul linguaggio prima di tutto, perché non c'è niente di più facile che fare un'iniziativa, una rassegna in cui si apre il campo, in cui si mette dentro qualche artista, qualche musicista, ma spesso in maniera assolutamente casuale; lo si fa come mimando questa necessità: l'importante è che ci sia qualche artista dentro. Ma non c'è un vero confronto: il confronto nasce soltanto su un livello di coscienza molto alto. Continuamente possiamo vedere realtà come il MACRO o il MAXXI che mettono dentro di tutto, ma così facendo non creano una comunità, si crea soltanto confusione. Quindi, se prima non c'è una vera capacità d'indagine e di dialogo sul linguaggio, su un'idea di bellezza, di cui ormai non si parla più neanche per sbaglio, se non c'è un reale confronto sulla qualità, sulle verticalità del linguaggio, allora non serve a niente agitarsi. Ora sembra che ci siano centinaia di migliaia di artisti, prima ce n’erano tre. Ma gli artisti saranno sempre tre, gli altri sono persone che si agitano, che seguono un flusso, che seguono le ovvietà nella comunicazione, ma niente a che fare con l’arte. Devo dire che in parte condivido la dichiarazione di Umberto Eco in cui dice che i social media hanno dato voce agli imbecilli.
Giorgio Nottoli – Il discorso sul linguaggio mi sembra molto importante, ma io vorrei aggiungere altro riguardo a ciò che dicevamo sull'idea di comunità. Nel contesto della musica elettroacustica abbiamo la fortuna che la nostra comunità, nonostante tutto, specialmente adesso, esiste in tutto il mondo. Riusciamo a comunicare con mezzo mondo perché è stato sfruttato il circuito di divulgazione scientifica. Dato che ci sono università in tutto il mondo che fanno parte di questa comunità, i convegni sono fatti nelle università, spesso finanziati dalle università stesse e quindi ci si incontra là dentro. Un insegnante di composizione tradizionale di un conservatorio è, invece, isolato completamente e non ha nemmeno lo stimolo a sapere cosa fa un suo collega dall’altra parte del mondo, tranne qualche caso straordinario, illuminato. Nel nostro caso, quello della musica elettroacustica, non si sopravvive se non c'è questo collegamento. Poi possiamo anche aprire un discorso sul fatto che questa comunità è andata peggiorando proprio perché l'industria pian piano si è appropriata di una parte di essa. Sul discorso del contenuto artistico, io posso solo dire una cosa da un punto di vista didattico. Ho insegnato per quarant'anni, con periodi buoni e altri cattivi, dubbi, crisi. Ho avuto, però, degli studenti meravigliosi che mi hanno insegnato come si fanno certe cose. Il problema fondamentale è cercare di non farsi mai sconti. Dobbiamo pensare che le persone possono fare arte al livello massimo, che hanno bisogno del tempo e degli stimoli per liberarsi dalle scorie culturali di cui siamo tutti pieni e tirare fuori le capacità che veramente hanno. In questo senso devo dire che i linguaggi che provengono della nostra tradizione musicale rappresentano una base culturale ancora molto valida, che val la pena approfondire e utilizzare.
Maria Vittoria Pellecchia – Forse bisognerebbe rapportarsi più serenamente a questo appiattimento, questo livellamento, proprio perché alla fine una cosa se viene realizzata in un certo modo si fa sentire, cambia forse solo il percorso con cui ciò avviene. Può non essere esclusivamente una scelta contenutistica che viene dall'alto. Sì, certo, siamo tutti individui, ma individui in rete. Magari è soltanto una questione di definizione del come generare una nuova comunità. Magari una nuova comunità può essere un insieme di individui in rete. Così come la creazione di un contenuto di qualità può anche venire da un marasma di materiali nel quale emerge qualcosa di qualità. Per fare un esempio pratico, possiamo pensare al Fan Footage: ci sono tante persone che con lo smartphone, oppure in passato con altri supporti, hanno ripreso scene di vita familiare; poi c'è l'artista che mette insieme queste immagini incoscienti, perché si tratta di immagini incoscienti che in altre mani diventano un'altra cosa, si trasformano. Però vengono da lì, da quell'appiattimento, vengono dall’aver dato quello strumento a tutti.
Antonio Capaccio – Certo, non è mai venuto niente dall'alto, è sempre venuto tutto dal basso casomai.
Roberta Gentili – Pensando da dove siamo partiti e a dove siamo arrivati ancora di più mi rendo conto che questo è solo un microcosmo che fa parte di universo fra tantissime altre cose. Sono molti i pensieri che mi vengono in mente. Mi ritrovo nel discorso che faceva Roberta Nicolai riguardo alla frustrazione nella creazione artistica, oppure in ciò che diceva Antonio Capaccio sull'incapacità di accettare l’errore come fonte di possibilità di ricerca, nella necessità di approfondire il concetto di comunità e quindi la necessità di trovare nuovi linguaggi. Ma, mi domando e chiedo anche a voi: quali sono i luoghi deputati all’arte? Da che cosa si deve ripartire? Quali sono i fondamenti di questo nuovo linguaggio? Me lo chiedo quotidianamente anche se, poi, ci confrontiamo con una realtà nella quale anche grandi istituzioni hanno mezzi limitatissimi per portare avanti non solo la ricerca, ma anche la didattica. L'esperienza microcosmica di Tor Bella Monaca mi ha permesso di ripartire dalle persone, come se fossi tornata indietro, ripartendo dall'esperienza quotidiana a contatto diretto con le persone: essere vicini alla vita reale per me questo può essere teatro. Nonostante io abbia condotto importanti esperienze teatrali, come quella in cui ho conosciuto il grande Odin Teatret, ancora oggi mi chiedo cosa è il teatro e qual è il suo linguaggio di oggi. Siamo ancora figli delle sperimentazioni degli anni passati? Mi sembra che tutti i campi dell’arte abbiamo necessità di ritrovare un nucleo. Da dove si riparte?
Antonio Capaccio – Se c'è una questione di libertà di pensiero, di movimento, allora la prima esigenza è quella di avere un bagaglio molto leggero. Se ci si deve muovere con troppe cose, si resta fermi. La prima cosa può essere pensare che se è possibile usare tecnologie e quant'altro, ci sono cose che si possono fare anche in una maniera molto semplice, più povera, più essenziale. Bisogna uscire fuori dall'equivoco della grande produzione. Non è necessario avere, ad esempio, il grande museo dove esporre una scultura di trenta metri. Quest'estetica del mastodontico, o degli effetti speciali, è fallimentare. Bisogna pensare fino in fondo e credere che scegliere una strada più semplice, un linguaggio più essenziale, non è un ripiego, ma una forma di libertà. Allora i luoghi li trovi di conseguenza.
Roberta Gentili – A proposito vorrei dire che, effettivamente, sto scoprendo sempre più “comunità satelliti”, come quella del MAAM Museo dell'Altro e dell'Altrove di Metropoliz, costituita da persone che si muovono fuori dai luoghi istituzionalizzati nei quali non è più possibile entrare. Sembra si stia creando una controtendenza al di fuori delle istituzioni. Può esistere un equilibrio tra queste due situazioni? A me sembra che una città come Roma sia purtroppo molto chiusa da questo punto di vista e che necessita sempre più di luoghi non istituzionalizzati dove portare avanti linguaggi comuni.
Antonio Capaccio – I luoghi deputati, i Musei, fanno le sfilate di moda, le feste di compleanno. Il MAXXI si vanta di avere una convenzione con la Deutsche Bank, il che vuol dire che fa le mostre che gli dice di fare la Deutsche Bank. Deve essere per forza un’aspirazione arrivare lì? C'è bisogno di essere un libero pensatore, liberarsi completamente da quelle aspettative. Io faccio una battaglia, come organizzatore, per sostenere giovani artisti che hanno qualità perché sono preoccupato che tra qualche anno questi artisti perderanno queste qualità, perché saranno sollecitati da un sistema allo sbando, ma che costituisce una grande forza attrattiva. Quindi, bisogna liberare le persone da questa prigione che è una prigione delle coscienze; dopodiché tutti devono esprimersi in varie forme, però poi devi essere bravo, perché altrimenti sei solo uno che si esprime. C'è la questione della maestria che è fondamentale e che bisogna riporre al centro del discorso.
Giorgio Nottoli – Comunque credo sia necessario avere delle manifestazioni, in luoghi deputati o no, che siano molto aperte. EMUFest era abbastanza aperta. Per esempio, c'era questa cosa che spesso non era gradita: i docenti delle varie università, dei conservatori, ecc., erano in concerto insieme agli allievi e, sul programma di sala risultavano assolutamente alla pari. Al momento del concerto erano tutti uguali. C'è un problema molto grande che vorrei sottolineare: in queste comunità di artisti spesso l'opera di diffusione non è diretta da un terzo, ma è diretta da un artista, che ha interessi personali specifici nella manifestazione e, quindi, sceglie spesso un compositore o un altro per ragioni di scambio. Noi abbiamo bisogno di figure che si occupino della diffusione della cultura, al limite che ci mettano di fronte alle nostre responsabilità, ma che siano figure diverse, per esempio, da quella del collega musicista. Noi abbiamo una situazione un pochino inquinata in questo senso: non c'è qualcuno che ti sceglie perché deve scegliere il più bravo. Spesso l'artista si trova in un panorama chiuso perché è stato blindato da una situazione di questo tipo. L'altro discorso, che penso potrebbe essere importante, è che non abbiamo più una critica. Quando eseguii il mio primo pezzo elettronico, il giorno dopo sul giornale di Pesaro è apparso un'articolo sul mio pezzo; oggi, se io eseguo un pezzo al quale lavoro per mesi, non esce neanche un fiato, nessuno si mette in testa di dire la sua opinione. Questo chiude ogni discorso: non c'è nessun dibattito su quella qualità di cui parlavamo. Se non c'è un dibattito, non c'è neanche la qualità.
Francesco Bianco – Ecco, noi di Nucleo Artzine cerchiamo di stimolare questo dibattito, di seguire ciò che avviene in campo culturale, ma è molto difficile. Ci occupiamo di arte in maniera molto varia, abbiamo molte redazioni e seguiamo sia la produzione accademica che quella meno accademica. Ma resta difficile sopravvivere e portare avanti un'attività forte, perché tutto viene fatto completamente su base volontaria. La nostra scelta è quella di puntare sulla qualità della recensione e dell'opera recensita, senza influenze d'atro tipo; ad esempio, sul sito non esiste nessuna pubblicità. Inoltre, cerchiamo di mettere in comunicazione i critici e gli addetti ai lavori che parlano del proprio lavoro. La discussione e il confronto avvengono anche in fase redazionale: gli articoli vengono scritti da un redattore e corretti da altri: lo scritto di un addetto ai lavori di teatro, ad esempio, viene corretto da qualcun altro all'interno della redazione.
Giorgio Nottoli – Effettivamente Nucleo ha recensito un mio pezzo, ma purtroppo è un caso assai raro. É essenziale che ci sia un contesto del genere, di confronto e critica, di dibattito, perché senza una discussione la gente non si abitua al confronto e finisce col non discutere affatto.
Antonio Capaccio – Ora, infatti, solitamente non ci sono più recensioni, intese come critiche motivate.