A un'idea di tecnica - di lingua, di conoscenza - volta essenzialmente al dominio sulle cose e alla costruzione di un'identità, possiamo invece tentare di opporre, nelle forme più vere della creatività, un diverso e più sincero sentire.
La creatività si impone come forma non protettiva del linguaggio, che non mira a costruire possesso e potere sul mondo, sulla natura e sugli altri individui, ma invece ci muove verso l'accettazione della nostra propria caducità, della nostra umana debolezza, e diviene una condizione fertile di apertura verso l'altro. La creatività ci libera da ogni certezza. Essa è accoglienza del rischio e dell'errore. Si impara innanzitutto a sbagliare e poi, se si è molto fortunati, si conserva questo dono nel tempo.
Non si tratta di pensare a una compiutezza, ma a una continua approssimazione, a qualcosa che rimanda sempre a qualcos'altro, a un ulteriore traguardo. Ogni opera è un compito che prima o poi ha fine, ma alla finitezza di un lavoro, dei risultati conseguiti, degli oggetti, corrisponde sempre l'infinità del cammino che ancora resta da percorrere, perché c'è sempre qualcosa che manca e che bisogna essere pronti ad andare a cercare. Dunque non occorre avere troppa affezione per quello che si è realizzato, per le opere, perché nulla ha senso se non in una dinamica autentica che rimetta ogni cosa costantemente in gioco.
Quasi di tutto si può fare a meno, e la rinuncia, il taglio selettivo, sono più importanti di qualsiasi presunta ricchezza. Si va avanti con poco bagaglio, leggeri, superando così ostacoli, strade impervie, bilichi. In questo modo, un sincero intento creativo può tentare di corrispondere - anche nell'imperio tecnocratico odierno - al nostro più puro desiderio di libertà..
Nonostante la fortissima illusoria percezione, che la tecnologia ci offre, di vivere in una realtà protetta, conosciuta e che dominiamo, è importante mantenere viva dentro di noi la convinzione che siamo invece in un mondo misterioso e ricco di possibilità sconosciute e sorprendenti. Ci sono cose inesplicabili, strane, inattese, inafferrabili. Contraddicono le logiche più sottili. Restano al di là delle descrizioni e delle interpretazioni umane. In un qualche modo la premonizione di quanto è ancora sconosciuto o piuttosto inconoscibile, e il sentimento del rischio inevitabile che a ciò si accompagna, può essere anche il germe di un'intenzione etica. Così l'incertezza del proprio sé, la percezione della propria parzialità, della propria insufficienza, ci conducono al sentimento di affinità con altro. Con gli altri.
La tecnologia, - nutrendo le nostre più primitive paure - illude di poterci riscattare dal giogo della nostra umana natura. Grazie all'attitudine che essa sembra possedere a replicare, moltiplicare, conservare, rigenerare - forse -, essa ci parla di un eterno presente, di un brulicante consumismo dove però ogni cosa si mantiene. Dietro l'apparenza ingannevole della ricerca del nuovo, la vera lingua della tecnologia è dunque quella immobile della cristallizzazione. Così essa ci distacca dal piò sincero sentimento del vivere dove, come sappiamo, tutto è precario, tutto cambia, non c'è niente d'incorruttibile, tutto ciò che vive muore.
Troppo spesso siamo stati portati a credere che il progresso tecnologico sia lo strumento privilegiato dell'emancipazione umana. Ma è certo soltanto che la tecnologia abbia accresciuto il potere di oppressione, di sfruttamento e di sterminio, e il nostro potere distruttivo verso la natura. Infine, grazie alla tecnologia, pare che possiamo raggiungere uno stadio altissimo di condivisione delle informazioni e del sapere. Ma la regola essenziale di questa grande comunione del comunicare e del conoscere consiste in un grado estremo di compatibilità e omologazione linguistica. Il condiviso è in realtà un criterio, sempre piò sofisticato e potente, di esclusione delle diversità. Così scopriamo di vivere in un mondo dove l'intolleranza raggiunge - proprio per merito della tecnologia - una forza distruttiva inimmaginabile in passato.
Nel piccolo laboratorio didattico che ho condotto al liceo Tasso, tra il 2004 e il 2005, abbiamo visto, insieme agli studenti, molti film e video d'arte. Sono stati proiettati alcuni dei film astratti che Luigi Veronesi reaiizzò tra il 1938 e il 1942. Abbiamo poi visto diversi film prodotti dallo Studio di Monte Olimpino, tra il 1962 e il 1972, per opera di Bruno Munari e Marcello Piccardo. Infine ci siamo rivolti a video recenti di autori contemporanei: Jon Jost, Claudia Muratori, Volker Schreiner, Antonio Tamilia.
Inoltre, abbiamo disegnato. La semplice pratica del disegno è la disciplina piò utile per carpire qualcosa - fin dove è possibile - dei segreti delle immagini. Un'immagine è pensiero, e leggere o costruire un'immagine vuol dire innanzitutto provare a pensare meglio che si può. Bisogna tentare di sciogliere quell'affollarsi inutile di segni che ingombra e satura la nostra esperienza quotidiana. Pensare è prima di tutto fare spazio.
Un esercizio era sul cadavre exquis, la tecnica surrealista che permette di comporre un'immagine o una frase - in questo caso un disegno - in più persone, senza che nessuna di esse possa tener conto del lavoro svolto dagli altri. Si lavora insieme, alternandosi su di uno stesso foglio che viene ripetutamente piegato in maniera da non consentire a chi è chiamato a proseguire il disegno di conoscere ciò che è stato realizzato in precedenza dagli altri - se non in minima traccia.
Il risultato finale di questo sercizio può rivelarsi sorprendente e, analizzato con gli studenti, aiuta ad accompagnare l'intuizione di alcuni principi fondanti del rappresentare. Per esempio l'importanza, nell'espressività di un'immagine, di elementi anche incongrui o contraddittori che intrecciati con fortuna servono a spezzare la logica spesso convenzionale e coatta del comporre. In questa maniera, a volte, il disegno acquista una singolare intensità, soprattutto dal punto di vista della costruzione di un tempo e di una narrazione. Si scoprono richiami, somiglianze, insospettabili legami fra tracce d'immagine difformi e lontane, ora insieme in un unico disegno. Ci si abitua ad accettare e ad ammettere il non conosciuto nel proprio procedere creativo. Si comincia a sospettare, giustamente, della sufficienza del proprio intento compositivo.
Un altro esercizio è stato quello di disegnare su un foglio che conteneva già elementi figurali, stimoli visivi. Si trattava di indizi visivi basilari - figure geometriche o ritmi e tessiture - sui quali gli studenti sono stati chiamati a lavorare, completando. Lo studente disegna comunque liberamente, ma dialoga anche con qualcosa di già dato che egli può sviluppare in molte direzioni, sempre però tenendo presente, in una certa misura, le logiche dello stimolo offerto. Lo studente può anche provare a completare il disegno con elementi e impostazioni formali differenti e distanti dal dettato, ma è chiaro che il successo del suo lavoro sta nel riuscire a stabilire una dialettica leggibile - seppure mossa dalla contraddizione - con il suggerimento fornito. Si tratta di adattare, di comprendere nel proprio lavoro qualcosa di diverso.
Anche in altri esercizi che abbiamo svolto gli studenti erano aiutati a realizzare disegni integrando elementi e logiche compositive differenti. Ciò avveniva, per esempio, in relazione ad alcuni elementi basilari del rappresentare, come il rapporto figura/fondo, o segno organico/geometrie, o la relazione fra elementi figurali principali, forme simboliche e tessiture decorative e scansioni ritmiche, eccetera.
Abbiamo svolto esercizi facili, semplici.
A volte gli studenti si mostrano eccessivamente legati a una lettura troppo scolastica dell'esperienza. Hanno bisogno che gli sia offerta la prospettiva di un risultato, di un traguardo didattico misurabile, tendono al compito e si aspettano una valutazione. Ma invece si tratta di cercare, non di definire né di misurare. Non si tratta mai di contare. Le verità essenziali -se ce ne sono - assai di rado hanno un lato esteriore. Ognuno è costretto a tenere per sé il senso più vero che riesce a dare alle cose. E dunque ciascuno difende un segreto. Ha la respondabilità di un segreto.
L'omologazione dei contenuti si manifesta nell'universo scolastico di oggi in forme gravi e disarmanti. Rispetto anche a un recente passato la scuola appare assai più carente di democraticità, con spazi di condivisione collettiva dell'esperienza molto ridotti e una pericolosa deriva depauperante che passa anche attraverso un'invedenza spesso delirante della cosiddetta politica. Se la nostra preoccupazione si rivolge agli studenti delle superiori e dell'università, ci accorgiamo, se poi volgiamo lo sguardo verso la scuola primaria, che qui il livello dell'organizzazione della didattica, dei metodi di studio, dei libri di testo, è talmente basso e inattendibile da far temere, per le generazioni più giovani, un prossimo futuro molto peggiore - ma è difficile immaginare quale.
(maggio 2005)
Antonio Capaccio